spilli da balia. I santini, che lo raffigurano legato o crocifisso, fini-scono strappati immancabilmente. L’importante è che sia riuscito a liberarlo. Ma ò anche paura di lui, perché mi ànno condizionato all’idea che, se non mi comporto bene, verrà a punirmi.

A Mineo, un venerdì santo, nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo, comunemente detta di San Pietro, mio padre mi porta a assistere alla Discesa dalla croce. Arriviamo in ritardo, comuncue in tempo per goderci lo spettacolo che sta per iniziare. Rimaniamo in piedi, poco oltre la soglia. Egli mi prende in braccio affinché possa vedere anch’io. È costretto a mettermi cuasi subito a terra, avendo io co-minciato a piangere e a dargli pugni e calci. La vista del braccio de-stro che si abbassa mi spaventa. Da lì a poco la statua sarebbe ve-nuta a castigarmi, perché cualche ora prima avevo fatto il monello. Poi andiamo a vedere il simulacro deposto nella bara di vetro che porteranno in processione per il paese. È morto. E io sono trancuil-lo: non può più farmi alcunché… Devo avere circa cincue o sei anni.

Ora ò forse dieci o undici anni. È il periodo in cui mia sorellina e io abitiamo dai nonni materni, in attesa di ricongiungerci ai nostri ge-nitori sul suolo elvetico da cui siamo stati costretti a rimpatriare. Duncue sempre a Mineo, un pomeriggio si fa una partita al gioco dell’Oca nell’oratorio o nella sagrestia della parrocchia di Santa Maria Maggiore. Il premio in palio è un biscotto, neppure fatto in casa. Prego Gesù di farmelo vincere… Ma perdo. Allora deluso, la-sciando il locale, sbocco nella chiesa (per cui si era in sacristia). Trovandomi sul lato opposto di fronte all’altare del Sacro Cuore, gli faccio il gesto col cuale si manda a cuel paese e scappo.

La notte della mia prima comunione, ancora in cuel periodo, vedrò il mio Gesù, cuasi identico a cuello raffigurato nel grande dipinto che pende sopra la testiera del particolare letto di ferro dei miei nonni; cuasi nel senso che, al contrario della figura pittorica, non esibirà il sacro cuore. Non ricevo alcuna specifica preparazione eucaristica.

Nel tempio pagano del dio Sole, trasformato dai cristiani nella chie-sa di Santa Maria Maggiore, il prete, alcune ore prima della messa natalizia di mezzanotte, accoglie la mia confessione fuori dal con-fessionale, entrambi seduti uno accanto all’altro nel coro o, comun-cue, su un lato dell’altare maggiore. Io non so proprio che cosa di-re. È lui che mi pone le domande cui rispondo sì o no. Infine mi be-nedice dandomi l’assoluzione. Dopo la penitenza che non mi ram-mento di aver ricevuto, torno a casa in ansiosa attesa di mangiare il corpo di Cristo. Allora ignoro che l’eucaristia costituisca l’elabora-zione cristiana, o cattolico-romana, di un rito pagano, e cioè della teofagia. Cuesto verrò a saperlo anni dopo. Tale cerimonia, senz’al-tro antichissima, consiste nel cibarsi di una divinità attraverso la carne e il sangue di una vittima sacrificale, di certo anche umana.

I sacri bronzi annunciano l’imminente messa di mezzanotte. Mia nonna mi ripete di non alzare gli occhi cuando il prete offre a Dio

 

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